Bentornati a Cultedì! La rubrica dove andremo a riscoprire i grandi capolavori e capisaldi della storia del Cinema. Quello che leggerete non sarà una vera e propria critica all’opera, piuttosto un caloroso invito a recuperarne la visione, e/o a rivederla.
Fatte le doverese premesse, iniziamo! Oggi parleremo dell’opera che più fra tutte ha contraddistinto e segnato la carriera del grande regista afroamericano Spike Lee. L’opera in questione è: La 25^ ora del 2002, basata sull’opera letteraria omonima di David Benioff. Il regista chiama a sé due giganti come Edward Norton e Philip Seymour Hoffman, affiancati da Barry Pepper e Rosario Dawson per rendere giustizia a questa storia. In questo modo, non solo ci parla dell’oscurità dei suoi personaggi, ma ci porta a capire che il mondo è una scala di grigi. Chiunque può cambiare scegliendo il proprio destino, sognando un futuro diverso da quello che sembra presentarsi.
!["La 25^ ora"](https://i0.wp.com/www.lapiziaviewsmagazine.it/wp-content/uploads/2024/11/copertine-articoli-2024-11-03T214855.411.png?resize=640%2C336&ssl=1)
Lo sguardo di Spike Lee su Monty Brogan
Il regista afroamericano ha da sempre posto il proprio sguardo sulle questioni sociali, politiche e culturali della società a lui contemporanea. Fin dalle su prime opere, come in “Lola Darling” (1986) o “Fa’ la cosa giusta” (1989), è possibile tracciare questa tendenza critica.
Il cinema di Spike Lee rivela le discrepanze di una società che, a tratti, vorrebbe anche fare un vanto della sua multietnicità. Una collettività che nasconde però l’odio che ormai si è consolidato negli animi dei suoi cittadini. Si fa dunque leva sulla presa di coscienza e di consapevolezza del proprio pubblico, affrontando temi caldi e scomodi. Denunciando, con la macchina da presa, i mali di una società in cui vivono e sono protagonisti sia l’autore che il suo pubblico. Egli propone allo spettatore situazioni e tematiche nelle quali ci si può rispecchiare. Colpisce l’animo del pubblico, così che l’autore possa portare avanti la sua dialettica, indagando sulla condizione dei propri protagonisti.
La tematica al centro dell’opera di Lee è la solitudine del suo protagonista e la prigione, le sbarre che lo circondano. Fin dalla sequenza di apertura vediamo stagliarsi, nello skyline della Grande Mela, fasci di luce che rappresentano le sbarre di una prigione mentale e fisica. Difatti è ciò che ci attende alla fine del film, ciò che attende lo stesso Monty Brogan. Il film ripercorre le ultime ventiquattro ore di libertà del protagonista, prima di finire in carcere a scontare la pena per il reato di possesso di droga.
Il rapporto che Monty Brogan ha con la città è estremamente complesso. Il protagonista non passeggia nelle piazze e strade affollate, ricerca invece la solitudine su una panchina posta ai margini di un parco, scruta e indaga il luogo dove emerge quella che resterà negli anni a venire una delle più grandi cicatrici dell’America contemporanea: ovvero, il Ground Zero, luogo dedicato alla memoria delle vittime dell’attentato terroristico dell’11 settembre. Non dimentichiamo poi che La 25^ ora è stato il primo film a mostrare il luogo dell’attentato alle Torri Gemelle, uscendo un anno dopo l’accaduto.
!["La 25^ ora"](https://i0.wp.com/www.lapiziaviewsmagazine.it/wp-content/uploads/2024/11/copertine-articoli-2024-11-03T214835.673.png?resize=640%2C336&ssl=1)
Quanto vale un singolo giorno?
È possibile per lo spettatore percepire come l’attore, dietro il personaggio di Monty Brogan, sembra quasi scomparire, rendendo visibile tutto il malessere, il disagio che lo attanaglia, l’angoscia di ciò che lo aspetta veramente una volta che sarà entrato in
prigione, e che avrà dunque lasciato fuori la sua libertà. Se nella pellicola American History X (1998) del regista Tony Kaye, Edward Norton interpretava un neonazista appena uscito dalla prigione, pronto a mettersi in discussione, qui, nell’opera di Spike Lee, affronta il percorso inverso: ossia la presa di consapevolezza della propria responsabilità prima di affrontare la condanna.
Lampante è la sequenza finale, quell’immaginare e sperare un futuro diverso. Quell’ora in più della giornata in cui tutto è mutabile e possibile; in cui il vedere la bellezza nella vita è reale e tangibile come abbracciare i propri figli e baciare la propria compagna o stare con i propri amici e passeggiare liberamente nella propria città. Tutto ciò viene negato al protagonista che può, dunque, solo vagare con l’immaginazione.
Alla fine del film, però, in Monty Brogan c’è una consapevolezza che va al di là della propria ammissione di colpa e della sua relativa conseguenza, il carcere. Ciò che Spike Lee vuole, forse davvero comunicarci, è che per quanto noi possiamo urlare allo specchio il nostro odio nei confronti delle persone, delle varie etnie, alla fine la vera colpa è della persona che ci sta davanti allo specchio. Siamo noi stessi artefici del nostro mero destino, bello o brutto che sia e tutto muta nelle sole ventiquattrore… venticinque, scusate.