Cultedì: The Blues Brothers

Bentornati a Cultedì! La rubrica dove andremo a riscoprire i grandi capolavori e capisaldi della storia del Cinema. Quello che leggerete non sarà una vera e propria critica all’opera, piuttosto un caloroso invito a recuperarne la visione, e/o a rivederla.

Fatte le doverose premesse, iniziamo! Era il 1980 quando nelle sale americane e d’oltre oceano usciva il capolavoro di un certo John Landis. Quest’ultimo fino a quel momento era rimasto impresso al pubblico per pellicole come Animal House (1978) o Ridere per ridere (1977); non aveva la minima idea che proprio all’inizio di quei meravigliosi anni Ottanta sarebbe uscito l’opera somma della sua intera filmografia, sebbene poi in futuro avrebbe confezionato opere come Una poltrona per due (1983) o Il principe cerca moglie (1988). E sì, stiamo proprio parlando di Blues Brothers! Perciò è ora d’indossare il vostro miglior completo scuro, i vostri occhiali da sole e prendere in mano il primo microfono, o surrogato che sia, che avete in casa che è ora di rimettere insieme su la Banda!

Cultedì: The Blues Brothers

Jake e Elwood: due anime in pieno stile Blues

Jake (John Belushi) e Elwood (Dan Aykroyd) sono due fratelli cresciuti all’orfanotrofio cattolico di Chicago. Hanno fin da subito capito che il loro vero talento era quello della musica, del Blues, Soul, del R&B. Difatti, per anni hanno campato di quello, finché Jake non è finito in carcere. Scontata la pena però, Elwood lo va a riprendere con la mitica bluesmobile. Successivamente si recano a far visita alla loro cara amata vecchia casa che li accolti da bambini. Qui capiscono che la situazione in cui riversa l’intera struttura è catastrofica: si trova sul lastrico ed è prossima alla chiusura.
Jake e Elwood promettono alla suora che li ha cresciuti, la (singolare) Pinguina, di recuperare in tempo la somma per salvare l’orfanotrofio dallo sfratto. Vi è, però, un’unica condizione imposta: recuperare la somma in modo onesto, senza rubare. Jake e Elwood ormai consci del fatto che sono in missione per conto di Dio cercano aiuto. Sotto consiglio di un loro vecchio amico, si recano in una chiesa battista. Qui il reverendo (James Brown) aiuta Jake a vedere finalmente la luce: rimettere in piedi la Banda e fare un concerto. Il ricavato servirà proprio a salvare l’orfanotrofio. Un piano semplice, così armonioso che non sembra avere falle. Recuperare tutti i membri della Banda, che ormai hanno cambiato completamente vita e occupazione, così come gli strumenti per suonare non sarà così facile. Anche se Jake e Elwood sanno come trovare il giusto accordo!

Ora però vogliamo dilungarci troppo sulla trama della mitica pellicola di John Landis, anche perché non vogliamo rovinarvi le mille sorprese che il film ha in serbo per voi. Sappiate che il reverendo impersonato dall’icona soul di James Brown non è che l’inizio di svariati indimenticabili camei del panorama blues americano, come: Ray Charles e Aretha Franklin, solo per citarne giusto un paio.

Cultedì: The Blues Brothers

La musica come ancora di salvezza!

The Blues Brothers non è solo una commedia musicale, ma è LA commedia musicale per eccellenza. John Landis ha riscritto e consacrato un genere. Infatti, negli anni avvenire si è cercato di replicare ed emulare, ma mai con lo stesso eco e successo del cult movie.

Il titolo lo dice chiaramente: il blues, la musica, al centro di tutto. La musica che salva vite e che ne redime altrettante. La musica che sa toglierti dai guai, che permette ad un umile cuoco, ex chitarrista (Matt Murphy), di convincere la moglie (Aretha Franklin), a mollare tutto per ritornare in pista.
La pellicola di Landis è un vero manifesto e inno agl’ultimi. A coloro che sono stati definiti perdenti e, perdonate il gioco di parole, finiti. Quando sembra ormai che il brano si stia per concludere, ecco che arriva un altro accordo o assolo che è pronto a risollevare l’intera canzone e far cantare tutti quanti.

C’è poi da sottolineare come il tutto fenomeno del film sia nato. La coppia Belushi-Aykroyd aveva già fatto la sua apparizione, impersonando Jake-Elwood Blues al SNL (Saturday Night Live). Nel pilastro del palinsesto televisivo americano i due comici trovarono la loro strada.
La pellicola di Landis ha dunque consacrato la coppia Belushi-Aykroyd portandola sull’olimpo della Settima Arte. La prematura dipartita di John Belushi nel 1982, in seguito ad un overdose, ha portato una maggiore attenzione sul film. Già all’uscita era stato un successo al botteghino: visto e rivisto e portato sul palmo di mano da tutti i cinefili. Il fatto è che l’opera di Landis incarna in pieno il concetto della fusione dell’attore con il personaggio che interpreta. Perché è chiaro a noi tutti che Jon Belushi è e rimane per tutti Jake Blues, così come Dan Aykroyd rimarrà per sempre Elwood Blues. Sebbene, quest’ultimo, sia poi riuscito a slegarsi dalla pellicola che lo ha portato alla fama internazionale.

Chi di noi non ha mai cantato a squarciagola Everybody needs somebody to love o Think scimmiottando, malamente, i passi e il timbro di Aretha Franklin?!
Tutti noi dobbiamo qualcosa all’opera cinematografica firmata da John Landis, che ha saputo entrare dentro noi spettatori e sedimentare il concetto di libertà espresso in termini musicali, abbracciando un genere musicale, che fino a quel momento, non era così solito usare nelle commedie indirizzate alle grandi masse.

Cultedì: The Blues Brothers

Ma perché proprio il Blues?!

Vogliamo precisarlo: quanto segue non è certo né tantomeno verità. Leggete quanto segue come una sorta di teoria o riflessione su tutto il concetto che sta dietro l’opera di Landis, e al genere musicale da lui scelto proprio per questa pellicola.

In termini musicali Blues, così come il Jazz, è uno dei generi più complessi che si possano trovare all’interno del panorama. Si tratta di un genere che, sebbene si rifà alla tradizione di tre o quattro accordi che seguono una scala in settima che conferisce il tipico colore musicale del blues, è ricco di variazioni e sfumature sonore. Arzigogoli complessi e scale che il musicista deve eseguire. Ma più che eseguire, deve sentirle.
In che senso? Il genere in sé richiama a sé la parola blue, che tradotto dall’inglese lo si accosta non tanto al colore in sé ma più al sentimento che il musicista sta provando e che vuole comunicare all’interlocutore: ossia quella nota malinconica, a tratti triste o in casi più estremi proprio inclini alla sfera della depressione dell’artista, che vengono poi sublimati in note e armonie. La scelta poi di adattare la canzone in una chiave più energica o triste, che sia, sta all’artista. Ciò che traspare è però una volontà di liberazione e di relazione con un mondo che vive altro rispetto a noi.
Un’elaborazione di un lutto che si accosta alla dimensione della solitudine, della sconfitta apparente, della tristezza, della perdita. Ma allo stesso tempo tali sentimenti vanno in netta opposizione al concetto di rivalsa, che è tipica del genere in quanto è una tematica portata proprio all’interno dei testi scritti delle varie canzoni, e che si possono affacciare anche volendo alla denuncia sociale in certi casi. Il Blues ribadisce le sfumature presenti in un mondo descritto da molti come un bianco e nero perenne, dove però il blue è pronto a dare tutt’altra accezione e colore.

The Blues Brothers lo sappiamo: non sceglie brani particolarmente tristi, ma perlopiù son tutti energici. Ma ciò nonostante, dobbiamo andare a leggere con attenzione i testi per comprendere quanto le canzoni scelte da John Landis siano in realtà molto profonde. Ad esempio: se prendiamo la celebre Everybody needs somebody to love possiamo constatare quanto il messaggio molto chiaro e conciso del titolo sia un invito alla libertà di amare e di capire che, nonostante tutti abbiano differenti modi di vivere-sopravvivere-di tirare avanti, alla fine ciò che ci rende simili è che tutti abbiamo bisogno di qualcuno da amare e viceversa. Che la musica è il modo in cui l’anima del singolo comunica all’esterno ciò che più lo attanaglia o allieta a seconda dei casi.

Cultedì: The Blues Brothers

Qual è l’eredità di The Blues Brothers?

Oggi come oggi è difficile trovare un degno erede, nel panorama del cinema mondiale, che si avvicini alla grandezza e alla sagacia comica di John Landis, il cui ultimo lavoro risale al lontano 2010 con Ladri di cadaveri – Burke & Hare. Forse è il caso di dirlo: quel tipo di commedia, così come lo era quella di un certo Billy Wilder, è giusto che sia relegata al suo tempo. Ogni generazione reinventa un nuovo modo di far ridere, di far riflettere e di pensare sulla condizione in cui balla il mondo e che continua a girare ininterrottamente come fosse un vero giradischi! è giusto dunque raccogliere il testimone e creare il nuovo, il diverso e l’originale continuando comunque ad imparare dal passato. Perché basta un completo scuro, degli occhiali, un cappello e un’armonica a bocca che subito ci sentiamo a casa!

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