Le Larve

Il nuovo album de “Le Larve” è disponibile dal 15 novembre. Otto tracce che, tra fragilità e sfide interiori, raccontano la complessità e la bellezza dell’essere umano. Brani che riescono a passare dal pop all’alternativa rock, offrendo un’esperienza sonora che non vuol essere classificata all’interno di un solo genere. Un simbolo di un’analisi attenta e profonda delle esperienze che l’uomo è in grado di vivere.

Noi abbaiamo avuto il piacere di conversare con l’ideatore del progetto: Jacopo Castagna. Colui che ha praticamente festeggiato il suo compleanno, non solo con l’uscita dell’album, ma con il release party che si è tenuto al Wishlist Club di Roma.

Le Larve

Come è nato il progetto di “La versione di un matto”?

«Allora innanzitutto non è un concept album, ma è un album che raccoglie diversi brani che sono stati scritti in momenti differenti. Nonostante, alla fine, ne emerge un sound coerente. Anche perché abbiamo lavorato in produzione a tutti i brani insieme. Quindi, è un album molto vario che raccoglie tracce molto diverse tra loro. Ho scelto come Title Track il brano “la versione di un matto” proprio perché è la mia versione di come si può portare il rock in maniera contemporanea oggi. Sai, adesso è esploso il rock dei Maneskin, che però a me ricorda comunque un rock molto anni novanta, un po’ retrodatato. Questa è la mia versione di come interpretare il rock oggi».

L’album, specie la canzone di “10 piani”, ricordano un po’ quel mood alla “Donny Darko”, quelle atmosfere un po’ cupe del “Corvo”, ma anche un po’ “Transpotting”…

«Beh… è sicuramente un’album dark, insomma. Affronta anche delle tematiche, con dei testi, che non sono sempre digeribili facilmente. Ecco».

Infatti, si avverte anche molta rabbia, così come anche molta critica sociale. Ti reputi un attento osservatore, oppure parli effettivamente di quello che è il tuo vissuto e quindi magari delle esperienze che ti porti sulla pelle?

«Beh, sono un attento osservatore nel mio vissuto. Nel senso che le cose possono anche scivolarci addosso, ma se uno poi invece si ferma ad analizzarle magari ne carpisce una visione un po’ più introspettiva. Quindi diciamo che analizzando quello che è successo a me e intorno a me ho tratto delle conclusioni che poi ho messo in musica. Ecco, mettiamola così».

Sono tracce che comunque sono state scritte in diversi periodi, ce n’è una alla quale sei particolarmente legato?

«Si, sono state scritte negli ultimi tre anni, più o meno. Forse quella a cui sono particolarmente legato è proprio quella che ha dato il titolo poi al disco, però devo dire che tranne un paio, sono a tutte molto legato. In realtà poi i brani a cui sono meno legato sono quelli un po’ più sbarazzini come: “Amsterdam” e “Incel”. E comunque ad Amsterdam sono comunque molto legato, perché l’ho scritta di getto dopo un viaggio tra Berlino e Amsterdam. Non ho neanche fatto in tempo a scende dall’aereo e già ce l’avevo in testa. Quella canzone mi è stata proprio ispirata da un viaggio che è stato un’esperienza incredibile. Quindi ecco, forse, “Incel” è il pezzo a cui sono meno legato e tutte le altre ci tengo molto».

Per quanto riguarda “Incel”, cosa ti ha spinto a scrivere questa canzone?

«È un brano nato da una giornata in cui ho deciso di rapire delle persone che conoscevo anche poco per provare a scrivere una canzone. Erano dei musicisti. Quindi è partito un po’ come un esercizio di stile del tipo “scriviamo una canzone”. In realtà alla fine l’ho scritta da solo. Però mi sono lasciato liberamente ispirare dai ragazzi che erano presenti e, anche se ironicamente, li ho definiti un po’ incel. Però non so se questo si può dire, potrebbero offendersi il giorno che leggono questa intervista».

Per quanto riguarda la tua evoluzione d’artista, come hai preso la decisione di essere indipendente? Come si è evoluto Jacopo da “Non sono d’accordo” a “La versione di un matto”?

«Diciamo che in mezzo c’è un altro disco che però non è mai uscito. Sono usciti 16 singoli che non sono mai stati raccolti per questioni contrattuali di Major. Le etichette, a volte, ti mettono i bastoni tra le ruote più che agevolarti. Motivo per il quale, con questo nuovo lavoro, volevo essere totalmente indipendente. Ho deciso di non affidarmi più a delle etichette, anche se ovviamente c’è una struttura che ci lavora, c’è un ufficio stampa, c’è un’etichetta d’appoggio, ma in realtà tutto il lavoro passa sotto la mia supervisione. È stata una decisione un po’ obbligata. Nel senso che mi sono accorto che nel alla soglia dei trent’anni a nessuna etichetta interessi più, non importa che prodotto porti. Non importa quanto sei forte, ma a un certo punto conta l’età. Contano i followers e noi ne abbiamo pochi.
Quindi a un certo punto il disco piaceva a tutti, ma nessuno era interessato a lavorarci. Ho trovato soltanto stralci di contratti che, secondo me, non si addicevano a questo disco. Insomma, veramente fuffa. Quindi ho deciso di prendere in mano la situazione e uscire indipendente. Altrimenti avrei rischiato di tenermi questo disco in tasca per anni senza trovare la produzione giusta, senza poterlo fare uscire ad aspettare un treno che magari non sarebbe mai arrivato. Quindi ho raccolto energie, voglia e soldi. Perché poi pubblicare come produrre costa. E ho deciso di fare tutto io sperando poi di poter continuare a lavorarci. Nel senso che, purtroppo fino a che non subentra un booking, è difficile farlo girare dal vivo. Con gli Stream non si guadagna niente, per quanto alti possano essere, a meno che non arrivi a milioni e milioni.
Io vorrei portarlo live… in giro questo, anche perché è stato concepito per essere suonato dal vivo. Anche nella registrazione abbiamo asciugato le parti e abbiamo fatto in modo che potesse risuonare bene proprio per i Live. Diciamo che il nostro augurio è quello di riuscire a portarlo il più possibile dal vivo. Così da vendere poi il disco in formato fisico, anche perché lo abbiamo stampato in vinile. Una scelta se non altro coraggiosa. Perché non tutti comprano il vinile e perché i costi di produzione e di vendita sono più alti rispetto al CD. Però noi ci teniamo e ci speriamo. Ce lo auguriamo, insomma. Sperando che possa fare il percorso che secondo me merita questo album».

Per quanto riguarda la data del Wishlist, come hai avvertito il pubblico?

«È stato un sold out non dichiarato, ma è stato un sold out. Il bello è stato vedere che tra tanti amici e conoscenti, più della metà del pubblico, quindi altre 150 persone erano effettivamente un pubblico. Ovvero, gente che non mi conosce, che non ha contatti diretti con me, ma che è venuta a sentire e a cantare anche e soprattutto il disco. La cosa che mi ha stupito di più è vedere quanta gente ha cantato le nuove canzoni pur essendo uscite il giorno stesso. Quindi vuol dire che queste persone che sono venute si sono ascoltate il disco due o tre volte per sapere almeno parzialmente i testi a memoria in così poco tempo.
Quindi è stata una bellissima sorpresa. Ce stato un pubblico numeroso, ma soprattutto molto caldo, che si è veramente comportato bene. Un bellissimo regalo di compleanno».

Le Larve

Parlando del tuo percorso lavorativo, quanto pensi che sia difficile o differente lavorare con la voce? Considerando che comunque fai anche il doppiatore e quindi hai due impostazioni differenti no?

«Beh, sicuramente una cosa aiuta l’altra. Anche se, comunque cantare non è solo una questione di intonazione e io sicuramente non faccio affidamento sulla bella voce visto che ho una voce abbastanza roga, distintiva se non altro, ma sicuramente non una voce calda e armoniosa come quelle, che ne so, di Marco Mengoni.
Quindi io punto proprio sull’interpretazione sul fatto di recitare, di dare un’interpretazione a volte sofferta, a volte insomma… di recitare con la voce mentre canto.
Quindi sicuramente il lavoro del doppiaggio mi ha dato le basi su come usare la respirazione, il diaframma, ma anche su come recitare quello che si canta. Perché poi le parole che uno dice non solo uno le canta ma le pensa. Se le hai scritte vuoi anche dargli valore… non per forza con il bel canto, ma anche appunto con una sorta di recitazione.
Invece, al rovescio, nel doppiaggio aiuta saper cantare? Il doppiaggio è comunque un lavoro di imitazione del tono di voce che qualcuno ha già fatto. Quindi se tu hai l’orecchio musicale e ascolti il modo in cui la battuta la viene fatta in originale, poi ti viene più naturale imitarla nella tua lingua e lasciare quelle intonazioni».

Ci sono anche molti dei tuoi colleghi doppiatori che, in un certo senso, stanno un po’ facendo il passaggio, o che comunque hanno sempre fatto entrambe le cose, no?

«Sì dai, in realtà è un po’ tendenza all’Italia in questo momento tutti vogliono fare tutto. Io non sono molto d’accordo su questo. Nel senso è vero che io faccio doppiaggio e musica, però è chiara la direzione che voglio prendere. Il doppiaggio per me è bellissimo, ma è un mestiere. La musica per me è la mia grande passione e voglio trasformarla in un mestiere. Quindi se mi dovessero dire di fare una scelta, io sceglierei la musica e sono sicuro di questo. Tenere due piedi in una scarpa è sicuramente stimolante, anche perché non è che stai a fa qualcosa di male, eh…
Attenzione, lungi da me criticare questa scelta. Il non sapere quale direzione prendere, o l’aspettare di vedere quale direzione va meglio, mi sembra un non scegliere in qualche modo. Mi sembra tenere due piedi in una scarpa e vedere quale può funzionare per poi buttarsi da quella parte.
Non mi sto riferendo a qualcuno in particolare, però nel senso non lo so. Secondo me la musica è una cosa: la scrittura. Perché poi un altro conto è interpretare.
Sai, anche nel doppiaggio capita di cantare, ci sono colleghi che lo fanno molto, molto bene. Però quando si tratta di scrivere la propria visione… no, la propria versione, tanto per citare il titolo del mio disco, bisogna pure aver qualcosa da dire. Specie se si ha l’esigenza e l’urgenza di farlo. Mi sembra che ci sia in questo momento una tendenza a voler dimostrare che si sanno fare tutte le cose. Una tendenza neanche italiana, forse un po’ mondiale, anche per colpa o grazie ai social.
Quindi è come se venisse meno un’urgenza artistica in virtù del bisogno di dimostrare che sia in grado di fare. Questo concetto non mi fa impazzire, perché le cose che per cui uno si sforza dovrebbero partire dall’esigenza di farle.
Tanto adesso sai com’è… basta il tiktoker che ha tanta visibilità. Ad un certo punto gli viene chiesto di fare il contenuto musicale e quindi si affida a un autore, magari che gli scrive la canzone, a un produttore che gliela produce. Poi ci mette solo la voce… che può anche essere fatta bene, figurati. E la canzone a quel punto ha dei numeri che asfaltano totalmente tutta la scena underground dell’emergente che con un sacco di fatica prova a emergere.
Questa cosa un po’ ti fa rodere il culo, perché vedi che questa gente non ha neanche voglia di farlo e magari sta semplicemente rispondendo a una richiesta nata dalla tanto visibilità. La musica, però, non è un contenuto da dare in pasto al pubblico. La musica dovrebbe essere qualcosa che il pubblico si gusta, ecco».

Questo, però, succede anche con il doppiaggio… basti pensare alla questione “talent”

«Beh, se vogliamo aprire una piccola parentesi sul doppiaggio, io penso che la vera rovina che sta portando il doppiaggio a finire come mestiere non sia tanto il talent quanto l’allievo. Cioè ti spiego a Roma più o meno tutti i doppiatori più famosi hanno aperto una scuola di doppiaggio e ci saranno dai 600 ai 1000 studenti di doppiaggio ogni anno. A questi 1000 studenti viene promesso un turno di lavoro da professionista. Il problema è che questi studenti nel 99% dei casi non sono dei professionisti, sono ancora degli studenti, ma questo turno a fine anno gli viene garantito. Quindi 1000 turni in un anno li levano ai professionisti, il che porta a 1000 turni in meno per i professionisti, per dare il contentino a questi della scuola di doppiaggio.
Ora, in alcuni casi ovviamente meritano di lavorare, perché è gente che si sta impegnando, che sta studiando e che porta dei risultati, ma in molti casi è solo gente che lo fa per hobby, per la gloria, perché manco loro sanno perché lo fanno. Alla fine levano turni ai professionisti. Giustamente ognuno ha un’opportunità, però non a discapito di chi ci lavora magari da una vita. È vero che siamo una casta, perché è vero che io sono figlio d’arte da generazioni eccetera, ma ci viene insegnato il mestiere da quando siamo ragazzini.
Quindi? Più che raccomandati direi proprio figli d’arte.
Quando io parlo, lo faccio in romano, no? Però se mi metti davanti al leggio io mi levo l’accento perché da ragazzino mi hanno insegnato questa impostazione. E sì, ho imparato facendolo… non ho fatto delle scuole o dei corsi, ma mi hanno insegnato a casa perché i miei genitori erano professionisti di questo mestiere. Quindi è normale che poi mi ritrovi a diciott’anni, con già 10 anni di esperienza in un mestiere. Oggi ti ritrovi a competere con persone che hanno appena iniziato e spesso e volentieri non reggono il gioco, però lavorano più di te. Questo, però, è un discorso grande da dover affrontare».

Tornando alla musica, se potessi scegliere un film, una serie tv, o anche un videogioco a cui poter fare la colonna sonora con la tua musica quale sarebbe?

«Ah, io adoro gli horror in generale, specialmente gli zombie, quindi ti direi qualcosa che ha a che fare con gli zombie. Il mio sogno era fare un videoclip con gli zombie, ma praticamente fare gli zombie a livello cinematografico è costosissimo perché ti servono dei truccatori fortissimi, degli effetti speciali, quindi sicuramente qualcosa con gli zombi potrei dirti.
Mi hai detto un videogioco, perché no? Il nuovo Resident Evil? Si, il nuovo Resident Evil con una bella base fatta da “Le Larve”».

di Lapizia

Guardo troppi film e parlo troppo velocemente, ma ho anche dei difetti!

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