Per chi non dovesse conoscere l’artista Torinese, Greg Goya è un meraviglioso creativo che dal 2022 esplora il mondo dell’arte urbana. La sua “Fast Art” riesce a mettere a nudo l’emotività di chi entra in contatto con le sue opere. Un racconto che parte da un concetto, talvolta personale, che si estende a macchia d’olio e si permea dell’interazione data dal prossimo. La sua arte parla il linguaggio della GenZ e unisce lo schermo virtuale dei Social Network all’esigenza del venirsi incontro.
Un connubio di scatti, video e installazioni che ha trovato posto – per la prima volta – all’interno della Mole Antonelliana. Uno spazio fin troppo concettualmente affine perchè al suo interno racchiude il Museo Internazionale della Storia del Cinema. Scenario che, quindi, ha fatto da sfondo al mezzo di comunicazione scelto dall’artista, ovvero: una tela che racchiude la necessità di trovare altri cento occhi per poter piangere un’addio.
Abbiamo avuto il piacere di incontrarlo proprio il giorno dell’inaugurazione dell’esposizione e ci siamo concessi delle chiacchiere i giorni successivi, per poter cercare di approfondire qualche informazione in più su questa straordinaria mente.
![Greg Goya si racconta](https://i0.wp.com/www.lapiziaviewsmagazine.it/wp-content/uploads/2024/10/copertine-articoli-14.png?resize=640%2C336&ssl=1)
Come ti descriveresti e come parleresti della tua arte a chi ancora non ti conosce?
«Allora, io mi chiamo Greg e sono un’artista che potremmo definire un po’ di strada e un po’ no. Nel senso che faccio quella che è prevalentemente nota come Street Art, ma in realtà ho sempre fatto anche arte in contesti più chiusi. Quello che faccio lo chiamo “fast art“, un termine che ho coniato per la mia arte e che la rispecchia molto. Fast, prima di tutto, significa che è fatta velocemente.
Di solito io arrivo, installo l’opera per strada e scappo, nel senso che non esisto più ed esiste solo l’opera. Inoltre, è emotivamente veloce; quello che guida un po’ la mia chiamata artistica, un po’ la filosofia che c’è dietro, è il tentativo di generare un’emozione immediata nello spettatore. Così che chi guarda l’opera abbia improvvisamente un risvolto emotivo che può essere talvolta più profondo, talvolta meno, talvolta tenerezza, talvolta commozione, o anche provare rabbia, l’importante è che abbia un feedback emotivo immediato».
Cosa vorresti che ci fosse scritto su di te, se dovessi finire tra le pagine – più o meno digitali – di un libro di storia dell’arte?
«Mi piacerebbe riuscire a far parlare della mia arte come di un’arte… chiamiamola terapeutica, nel senso che cerca di far bene alle persone. Un qualcosa che riesca a tirare fuori dalle persone delle emozioni che magari già esistevano in loro, ma che erano un po’ sopite. Ad esempio, l’opera che tu citavi (Qual è stata la tua più grande delusione?), che era un pannello con dipinte gocce o lacrime all’interno delle quali le persone potevano scrivere le loro più grandi delusioni: partiva tutto da una domanda semplice. Obiettivamente non c’era un grande costruzione semantica per cui dire “Wow, che concetto”. Però, io dico sempre che dalle domande più semplici possano arrivare le risposte più complesse. Da una domanda semplice come “qual è la tua più grande delusione?”, le persone scrivono dei momenti drammatici o comunque deludenti della propria vita e in questo modo si liberano da quest’ultimi, buttandoli sull’opera.
A me piacerebbe che fosse conservato questo aspetto della mia arte: cioè un’arte che parla davvero con le persone e che non rimane rinchiusa in una teca di un museo, ferma senza comunicare».
Cosa provi ogni qual volta una persona interagisce con una tua opera o più in generale con la tua arte?
«È una sensazione molto strana perché devi considerare che, al di là della singola performance dell’opera, ognuno dei miei lavori ha giorni e giorni…talvolta settimane di costruzione: prima c’è l’idea del progetto e poi bisogna trovare il modo con il quale costruirla; poi trovare il luogo giusto dove inserirla, così si va di luogo in luogo. Le persone cominciano a interagire e contemporaneamente le filmiamo per raccontare tutto quanto quello che sta succedendo. Insomma, c’è un grande processo, più lavorativo che artistico, forse. Che, in un certo senso, poi sono un po’ la stessa cosa. Comunque c’è un impegno importante che nasconde la parte emotiva.
Io di solito me la godo molto dopo quando ormai l’installazione, diciamo, si è consumata e quando non c’è più nessuno. In quel momento mi rendo conto di cosa abbiamo realizzato e se abbiamo lavorato bene sono felice».
Rivedere anche i video, o tutto il montato di questo processo ovviamente ti scatena qualcosa, no?
«Sì, guarda, l’ultima volta che ci siamo visti ed era durante appunto la mia esposizione.. All’interno della Mole veniva proiettato su questi due grossi pannelli, un carosello di video delle mie fast art. Un montato di una ventina di minuti con tantissime fast, ne ho fatte 100.
Ti giuro che quando poi la gente se n’è andata io mi son messo lì. Mi sono guardato tutto il montato e mi sono commosso perché comunque 100 opere sono tante. Mi sembrava veramente un viaggione non solo artistico, ma proprio umano. Io conoscevo ogni singola clip perché l’avevo inserita e ricordavo il momento in cui è stata registrata e il motivo per il quale avevo scelto quella. Ed è importante perché io ci tengo che ogni persona che io inserisco all’interno del video comunichi qualcosa di diverso. Non sono scelte tanto in ragione di chi sono, quanto in ragione di quello che rappresentano.
Se vedo una persona che ride davanti all’opera cerco di inserirla perché so che c’è una fascia umana che si è divertita e allora diventa un po’ il simbolo di quella fascia umana. Poi magari ce ne sono dieci, ma io ne scelgo soltanto una ed è un po’ più casuale quella scelta. Non è che ci sia un grande raziocinio dietro. Se ce n’è una che si commuove cerco di inserirla, perché voglio che rappresenti invece le persone che si sono commosse. Un insieme di esseri umani e di emozioni fortissime».
Come ti ha fatto sentire l’esporre le tue opere all’interno delle mura di un museo?
«Il Museo del Cinema e la Mole Antonelliana in generale, come struttura, come simbolo, sono un po’ il tempio della mia città.
Io ho cominciato a fare arte a Torino e mantengo comunque un forte contatto con la mia città, al di là del fatto che poi le mie opere siano diventate mediaticamente interessanti e World Wilde.
Torino è lo sfondo di ogni installazione, quindi approdare nel suo simbolo sarebbe non so come per un romano esporre al Colosseo; o come per un milanese esporre al Duomo. Qualcosa di fortemente simbolico, al di là del fatto che si chiami museo».
Sei un perfetto connubio tra online e offline, ma quale dei due mondi ti fa sentire più a casa e, in un certo senso, meno esposto?
«L’arte in generale. Nel senso che io sono un’artista figurativo, o visivo come dir si voglia, quindi per definizione non faccio un’arte parlante se non che attraverso le immagini. Sono, di conseguenza, poco abituato forse a parlare con grosse masse di persone se non attraverso uno schermo.
Lo schermo l’online è stato un po’ uno scudo, un trampolino, ma pian piano mi sono allenato alla cosa e oggi non non ho grandi problemi a parlare anche con con tante persone. Però continuo a preferire tantissimo che siano le opere a parlare per me e, per esempio, durante l’installazione di un’opera io non faccio un’introduzione e lascio che siano le persone ad avvicinarsi all’opera. Interagisco con quest’ultima, e lascio che magari poi leggano sui social o sul catalogo dove lo troveranno il suo significato. Non voglio essere io a darglielo perché, nonostante io gli abbia affidato un significato, mi piace che ognuno se la viva in modo autonomo e che ci veda le cose che vuole vederci».
Parlaci di “Per cosa hai pianto per l’ultima volta”
«L’ultima opera si intitola “Sei in tutte le mie lacrime”. Ho dipinto questa tela con al centro un soggetto femminile che piange. Il soggetto è femminile ma rappresenta tutti o nessuno, nel senso che non vuole essere la rievocazione di una figura della mia vita. Effettivamente è circondata da tantissimi occhi che piangono. Questo pattern di occhi si espande su tutta la parete e quindi una tela di 1,20 M per 80 cm. Una misura abbastanza grande la cui superficie diventa un 5 m per 4m.
Un gigantesco muro di occhi che piangono e che raccontano di questa delusione amorosa per la quale io comincio a piangere. Ma più piangevo, più volevo continuare a farlo e non mi bastavano i due occhi che avevo. Dato che non mi bastavano ho dipinto più di 100 occhi per poter piangere con più di 100 lacrime quella che era la mia delusione. Questo è il viaggio artistico ed emotivo che c’è dietro l’opera. Tengo al fatto che, nonostante sia molto poetica come tipologia di significato me ne rendo conto, ognuno poi ci veda quello che vuole. Io do una traccia emotiva, dopodiché le persone creano le diverse associazioni.
C’è chi mi ha raccontato, per esempio, di averla associata a un lutto, perché magari era la ragione per cui hanno pianto l’ultima volta. Una tipologia di dolore completamente diverso da una delusione amorosa, un vissuto emotivo completamente diverso ed è bello così.
Secondo me, è bello che comunque l’arte sia spiegata fino a un certo punto. Se è abbastanza forte, abbastanza bravo da togliere tutta quanta la supercazzola di spiegazione che c’è attorno; si riesce a far parlare soltanto la pittura.
Alla fine quella, la cosa importante è importante che sopravviva l’opera.
Non che sopravviva la mia faccia».